Molti giovani intraprendono un percorso universitario con grandi aspettative, mossi dalla passione o, talvolta, dalla speranza di una carriera stabile e ben retribuita. Scelgono corsi di laurea in cui credono, come ad esempio una laurea in chimica, senza sapere esattamente quale sarà il risvolto professionale che li attende una volta terminato il ciclo di studi. Quel che spesso ignorano è che la distanza tra formazione accademica e mercato del lavoro può essere più ampia di quanto sembri.
L’illusione del “posto fisso”
Per decenni, il mito del “posto fisso” ha plasmato le aspirazioni di intere generazioni. Le università erano viste come il trampolino sicuro verso un lavoro a tempo indeterminato, magari nello Stato, magari in un’azienda di grandi dimensioni. Tuttavia, la realtà odierna racconta una storia molto diversa. Contratti a termine, collaborazioni occasionali, stage non retribuiti e partite IVA “forzate” sono ormai lo standard d’ingresso nel mercato professionale.
Chi ha investito anni nello studio, anche con voti brillanti, scopre che la fatica spesa non si traduce automaticamente in sicurezza economica o in opportunità lavorative coerenti con le proprie competenze. Il mismatch tra preparazione accademica e richieste del mondo del lavoro diventa così una ferita aperta.
Il mercato che non assorbe
I numeri che raccontano il disagio
I dati ISTAT e quelli forniti da enti indipendenti raccontano una realtà preoccupante: oltre il 30% dei laureati italiani sotto i 35 anni svolge un lavoro che non richiede la laurea. Un numero ancora più alto dichiara di percepire una retribuzione inferiore a quella attesa, con una sensazione diffusa di sottoutilizzo delle proprie capacità.
L’Italia resta uno dei paesi europei con il più alto tasso di disoccupazione giovanile, e anche tra coloro che lavorano si riscontra un elevato tasso di insoddisfazione. A tutto ciò si aggiunge il fenomeno del “brain drain”: ogni anno migliaia di giovani altamente qualificati scelgono di emigrare per cercare condizioni più dignitose all’estero.
Professioni in via di estinzione e nuove competenze richieste
Molte professioni tradizionali si stanno trasformando o stanno scomparendo del tutto, mentre nuove figure emergono in campi legati alla tecnologia, all’analisi dei dati e all’intelligenza artificiale. Tuttavia, le università spesso non riescono ad aggiornarsi con la stessa rapidità. Ne deriva un sistema formativo che forma professionisti per un mercato che non esiste più, ignorando settori in piena espansione.
L’assenza di una reale integrazione tra mondo accademico e imprenditoriale impedisce la creazione di percorsi di studio realmente orientati alla domanda. E così, studenti motivati si ritrovano con titoli poco spendibili o che necessitano di continue riconversioni professionali.
L’orientamento che manca
Una bussola rotta per le nuove generazioni
Una delle principali carenze del sistema scolastico italiano è l’orientamento. Nella maggior parte degli istituti superiori non esiste un vero e proprio percorso guidato per aiutare gli studenti a comprendere le proprie attitudini, i trend occupazionali o le implicazioni concrete delle scelte universitarie.
I test attitudinali sono spesso generici, e i momenti di confronto con esperti del settore sono rari. In molti casi, la decisione su quale percorso intraprendere viene presa in base a convinzioni personali, consigli familiari o semplice passione, senza una reale comprensione delle opportunità occupazionali.
Il risultato è che molti giovani si ritrovano a fine percorso universitario disorientati, con un titolo in mano ma senza una direzione. Inizia allora la fase del “rincorrere il lavoro”: stage, master, corsi di aggiornamento, esperienze all’estero nella speranza di trovare una posizione stabile.
La figura dell’orientatore professionale
Nei paesi del nord Europa, la figura del career coach o dell’orientatore professionale è ben integrata nel percorso educativo. Si tratta di professionisti in grado di guidare gli studenti nella lettura delle proprie attitudini e nell’analisi delle opportunità reali del mercato. In Italia, questa figura è ancora marginale, spesso relegata a brevi incontri informativi o, peggio, completamente assente.
Introdurre con sistematicità questa figura nei licei e nelle università significherebbe dotare gli studenti di uno strumento prezioso per scegliere consapevolmente. Sarebbe anche un modo per diminuire il numero di abbandoni universitari e migliorare l’efficienza del sistema educativo nel suo complesso.
Il peso psicologico delle aspettative tradite
Ansia, frustrazione e senso di fallimento
Quando il lavoro manca, o non è quello sperato, l’impatto psicologico è profondo. La sensazione di aver “sbagliato tutto”, il confronto costante con coetanei che sembrano avercela fatta, la pressione sociale e familiare diventano una miscela esplosiva.
Il disagio psichico tra i giovani adulti è in costante aumento, con segnali evidenti di depressione, ansia e burnout già nei primi anni di carriera. Il lavoro, da elemento identitario e di autorealizzazione, si trasforma in fonte di stress e disillusione.
A questo si aggiunge l’incertezza economica: la precarietà rende difficile pianificare, costruire una famiglia, accedere a un mutuo. Il senso di instabilità si cronicizza, influenzando negativamente anche le relazioni e l’autostima.
La normalizzazione del fallimento
Un altro fenomeno preoccupante è la tendenza a normalizzare la disoccupazione o la sottoccupazione come se fossero tappe inevitabili della vita giovanile. Si diffonde l’idea che “tutti passano da lì”, che è normale dover fare lavori non coerenti con il proprio percorso o dover cambiare più volte strada.
Ma ciò che dovrebbe essere eccezione rischia di diventare regola. E in questo contesto, anche la meritocrazia perde di significato: non sempre chi studia di più o si impegna di più ottiene risultati migliori. Il capitale sociale, le conoscenze, la disponibilità economica della famiglia d’origine continuano a fare la differenza.
Le responsabilità del sistema
Università troppo autoreferenziali
Le università italiane, per quanto capaci di offrire eccellenza in molti ambiti, spesso rimangono chiuse in una logica accademica autoreferenziale. I corsi non sempre rispecchiano le evoluzioni del mondo esterno, i docenti non sempre hanno esperienze professionali dirette nei settori che insegnano.
Il numero di tirocini realmente formativi e il legame con le imprese sono ancora insufficienti. Solo pochi atenei hanno attivato collaborazioni strutturate con aziende, enti pubblici o centri di ricerca che permettano agli studenti di acquisire competenze pratiche durante il percorso di studi.
Anche i sistemi di valutazione dei corsi, spesso basati su logiche interne e autoregolate, non aiutano a creare un ecosistema realmente orientato all’inserimento lavorativo.
Politiche pubbliche inconsistenti
Sul piano istituzionale, le politiche attive del lavoro sono frammentarie e spesso inefficaci. I centri per l’impiego non riescono a gestire una domanda così diversificata e complessa. I fondi per la formazione sono dispersi in una miriade di iniziative senza una regia centrale.
Anche gli incentivi alle aziende per l’assunzione di giovani, se non accompagnati da un controllo rigoroso, finiscono spesso per alimentare fenomeni di sfruttamento o di assunzioni temporanee finalizzate solo al beneficio economico a breve termine.
Proposte per un cambiamento reale
Un sistema formativo più dinamico
Per rispondere efficacemente alla crisi dell’orientamento professionale, è necessario ripensare il sistema educativo in chiave dinamica. L’introduzione di percorsi modulari, la possibilità di modificare il proprio piano di studi in funzione delle nuove esigenze del mercato e una maggiore attenzione alle soft skill sono elementi fondamentali.
Le università dovrebbero dotarsi di osservatori permanenti sul mercato del lavoro, in grado di rilevare tempestivamente i trend e proporre aggiornamenti costanti nei curricula.
Alleanze tra mondo della formazione e imprese
Creare ponti tra università e mondo produttivo è indispensabile. Non si tratta solo di inserire stage obbligatori o testimonianze aziendali durante le lezioni. Serve un’integrazione vera: progetti comuni, docenti provenienti dal mondo del lavoro, percorsi di apprendistato in alternanza con lo studio.
Queste alleanze, se ben costruite, permettono non solo un inserimento più rapido dei giovani, ma anche una formazione più aderente alla realtà e una crescita più consapevole delle aziende stesse.
Valorizzazione delle esperienze non formali
Il sistema italiano è ancora troppo legato al titolo di studio come unico indicatore di competenza. In altri paesi, le esperienze di volontariato, i progetti personali, le esperienze di viaggio o i corsi online sono riconosciuti come elementi di valore nel curriculum.
Dare spazio a queste dimensioni significherebbe valorizzare le persone nella loro interezza, riconoscere percorsi alternativi e dare respiro a chi, pur non avendo un profilo “canonico”, possiede competenze reali.
Una nuova narrazione del lavoro
Dalla carriera lineare alla progettualità personale
Il modello del lavoro lineare, con una progressione costante dentro la stessa azienda o lo stesso settore, è ormai superato. I giovani di oggi vivranno probabilmente più carriere nel corso della vita, cambieranno ambito, lavoreranno in modo autonomo, talvolta da remoto, talvolta in squadra.
Accettare questa nuova realtà richiede una revisione culturale profonda. Bisogna abbandonare l’idea del fallimento legato al cambio di rotta e promuovere invece una cultura della flessibilità e della progettualità personale.
Lavorare per vivere, non vivere per lavorare
Infine, occorre ridefinire il valore del lavoro nella società. L’idea che la realizzazione personale passi solo attraverso il successo professionale è limitante. L’equilibrio tra vita e lavoro, la cura di sé, il tempo per le relazioni e per la crescita personale sono elementi sempre più centrali nella nuova visione della felicità.
Rimettere il lavoro al suo posto – importante, ma non totalizzante – può rappresentare una svolta per le nuove generazioni. Significa liberarsi dalla pressione di dover “arrivare” a tutti i costi, e cominciare a costruire percorsi autentici, in cui le scelte siano davvero libere.
